L’avvento del fascismo in Italia
Spesso si cerca di far passare l’idea che il fascismo rappresentò un virus insinuatosi in chissà quale modo nella vita politica del Paese, avvelenandola per oltre un ventennio; diverse considerazioni smentiscono questa analisi superficiale, che non valuta la situazione sociale, politica ed economica del periodo seguito alla Prima guerra mondiale. Il fascismo fu, secondo molti, un prodotto (quasi) inevitabile di quei tempi.
Alcuni storici vanno oltre, proponendo curiosi parallelismi tra il fascismo e un’ideologia per molti aspetti opposta, quella comunista…
Fin dal giugno 1919, con l’economia italiana in sofferenza, il capo del governo Francesco Saverio Nitti tentò una politica finanziaria atta a rallentare l’inflazione e risanare il bilancio pubblico. Non si ebbe però l’effetto sperato: non soddisfece gli imprenditori e scatenò l’ira popolare, che si tradusse nelle sommosse contro il carovita scoppiate in diverse città della penisola già nel luglio 1919. Iniziò così il “biennio rosso”, ispirato alla rivoluzione russa, con scioperi, dimostrazioni e agitazioni violente nelle fabbriche e nelle aziende agricole che si protrassero fino al settembre 1920.
Il declino dello Stato liberale era stato sancito già alcuni mesi prima con la nascita (gennaio 1919) del Partito Popolare Italiano di Don Luigi Sturzo. Questo partito raccoglieva le forze cattoliche del Paese presenti in molte fasce sociali e rappresentava così un temibile avversario politico della destra, che aveva trovato fino a quel momento un gran numero di elettori tra le classi rurali.
Sotto l’incalzare del Partito popolare e di quello socialista, il governo Nitti approvò nell’agosto 1919 la riforma elettorale. In sostituzione del sistema maggioritario si passò a quello proporzionale, con estensione del diritto di voto a tutti i cittadini maschi che avessero compiuto 21 anni. Si voleva così dare spazio in Parlamento al crescente consenso raccolto dalle due grandi organizzazioni politiche di massa, che nei vecchi collegi uninominali si trovavano in difficoltà contro i candidati liberali, ben radicati sul territorio.
Prima delle elezioni accaddero due fatti estremamente importanti: il 20 ed il 21 luglio 1919 vi fu uno sciopero generale (lo “scioperissimo”) a sostegno delle repubbliche di Russia e Ungheria e contro l’intervento degli eserciti “bianchi” in quell’area. Lo sciopero avrebbe dovuto coinvolgere molte nazioni, ma riuscì (pur con la mancata partecipazione di alcune importanti categorie di lavoratori e di alcuni sindacati) meglio in Italia; a seguito di questo evento il 7 agosto il governo Nitti richiamò in Patria il corpo di spedizione italiano inviato in Russia. Il secondo avvenimento fu l’occupazione di Fiume iniziata il 12 settembre 1919 (e conclusasi nel Natale 1920) da un corpo di spedizione di volontari guidati da Gabriele D’Annunzio. L’azione trovò consensi in ambienti della destra nazionalista e tra i reduci di guerra, ma non piacque alla media e grande borghesia (industriali e possidenti agricoli), che alle azioni clamorose preferiva ordine e stabilità economica e politica.
Nel novembre 1919 giunse finalmente il momento delle elezioni politiche con il sistema proporzionale: fu una netta sconfitta per il partito fascista, che all’epoca nell’ambito dei movimenti politici che si richiamavano all’interventismo e al mito dell’esperienza di guerra (sindacalismo nazionale, futurismo, arditismo, fiumanesimo) non era il più numeroso e neppure il più influente. Fu invece un successo per i socialisti e i popolari, mentre i liberali persero la maggioranza e il paese risultò così ingovernabile. Mentre il Partito socialista tentava la trattativa con il governo di Giolitti insediatosi nel giugno 1920, gli industriali e soprattutto i latifondisti cominciarono a dare appoggio economico alle squadre dei ras fascisti, che rispondevano con la violenza agli scioperi e alle occupazioni delle fabbriche organizzando attentati e provocazioni in molte città italiane.
Non mancò la risposta della controparte: comunisti e anarchici reagirono infatti con la creazione delle squadre degli Arditi del Popolo, composte da elementi comunisti, anarchici, socialisti, sindacalisti rivoluzionari e da generiche formazioni di difesa proletaria. Da ricordare a questo proposito la difesa di Parma, assalita da migliaia di fascisti nell’agosto del 1922.
In molte occasioni prefetti, commissari di polizia e comandanti militari tollerarono o addirittura agevolarono le operazioni delle squadre fasciste. I successivi accordi, che portarono a un miglioramento della condizione dei lavoratori, spaventarono non solo i grandi proprietari industriali e terrieri, ma anche la borghesia, che ormai costituiva una classe sociale divenuta ormai numerosa. Fu in questo clima che la figura di Mussolini assunse sempre più rilevanza: giunta ad un bivio, l’Italia scelse il fascismo nella speranza che garantisse ordine e stabilità, soprattutto dopo la rinuncia alle aspirazioni repubblicane.
Ritenendo che il fascismo rappresentasse “dei fuochi d’artificio, che fanno molto rumore ma si spengono rapidamente”, Giolitti rifiutò di mobilitare polizia ed esercito per sedare le violenze e si convinse che il movimento si potesse esaurire da sé. Fu Giolitti stesso a favorirne la definitiva ascesa in occasione delle elezioni nel maggio 1921, inserendo i candidati fascisti nei Blocchi nazionali con la speranza di assorbirli nella normale prassi parlamentare. Furono eletti 35 esponenti del Fascio Littorio, con alla testa Mussolini, terzo deputato più votato d’Italia. I partiti di massa (popolare, socialista, comunista) ottennero buoni risultati.
Seguirono i brevi governi di Ivanoe Bonomi e Luigi Facta, prima del definitivo instaurarsi del regime fascista con la marcia su Roma dell’ottobre 1922.
UN REGIME IN LUOGO DI UN ALTRO?
Stabilito che l’avvento del fascismo non fu un fulmine a ciel sereno, ma che trovò nella situazione sociale, economico e politica un brodo di coltura ottimale, possiamo chiederci: esistono punti di contatto tra due ideologie contrapposte come quella fascista e quella comunista? Si direbbe di sì.
Consideriamo per esempio lo sconcertante clima che regnava in Europa dopo la rivoluzione russa; tra l’intellighenzia si diffuse l’idea che liberalismo, individualismo e democrazia parlamentare avessero corrotto la società, e che fosse necessario un evento forte che rovesciasse la situazione. La guerra scoppiata nel 1914 fu così salutata con entusiasmo anche da personalità e ambienti insospettabili, estranei al nazionalismo e al futurismo di destra. Lo stesso Lenin, per esempio, considerava la guerra, pur esecrata, come un mezzo per estendere la sua idea di rivoluzione proletaria a tutta l’Europa.
Da ricordare anche il filo conduttore che unì fascismo e comunismo nel considerare capitalismo e democrazia borghese, dopo la crisi economica del 1929, ormai in fase terminale e di condividere quel concetto di “rivoluzione” che portava a “tesi antidemocratiche o molto scetticamente democratiche” (Sergio Romano, Vademecum di storia dell’Italia unita). Questa analogia permise tra l’altro agli intellettuali che erano stati vicini al regime fascista di passare sull’altra sponda senza troppi imbarazzi alla fine della Seconda guerra mondiale.
Resta il fatto, come detto, che il fascismo poté ad un certo momento giocare meglio le sue carte perché rispose alle esigenze e alle paure di una parte rilevante della società degli anni Venti. Con il minaccioso progredire delle idee socialiste e comuniste (il “pericolo bolscevico”) e con l’avvento dei sindacati e delle proteste operaie la borghesia, i liberali, parte dei cattolici, gli industriali e gli agrari temettero un sovvertimento dell’ordine costituito; questo giocò inevitabilmente a favore di chi si presentò come suo garante.
Mi ha aiutata a studiare
Affermare che Lenin era a favore della guerra è falso! È come sostenere che Veronesi è a favore del cancro perché ha dedicato la vita a studiare le sue manifestazioni deleterie sull’uomo! Per Lenin la guerra è una contraddizione inevitabile del capitalismo, e come tale l’ha combattuta. In quanto rivoluzionario che voleva abbattere il capitalismo, capiva che durante la guerra era il momento migliore per agire, ed era uno dei pochi in Europa che dal 1914 ha preso posizione contro la guerra.