Vittorio Emanuele III, quante contraddizioni!

L’ispirazione per questo pezzo mi è venuta dalla lettura del libro “Casa Savoia, diario di una monarchia”, di Maria Gabriella di Savoia (figlia di Umberto II e Maria José) e dello storico e saggista Romano Bracalini. Il testo ripercorre le vicende della Casa sabauda dal 1861, anno dell’unità d’Italia, al 1946, quando Umberto fu costretto all’esilio. Corredato di molte fotografie dell’archivio privato di Casa Savoia, la sua lettura è facile e gradevole e non sembrano evidenti parzialità o versioni di comodo nell’esposizione.
Sorprende come ogni re fu a proprio modo un personaggio, nel bene e nel male, e come ognuno fosse diverso dal padre e dal figlio.
Così, dopo il sanguigno Vittorio Emanuele II, figlio dell’amletico Carlo Alberto, ecco l’altero Umberto I e lo scrupoloso Vittorio Emanuele III, per concludere con il promettente Umberto II, che però fu re per nemmeno due mesi.
Proprio l’ultimo Vittorio Emanuele ha più di ogni altro suscitato la mia curiosità: un personaggio che si trovò a vivere i momenti chiave della storia del Novecento Italiano, ma che non seppe gestirli e ne fu, infine, travolto.
Un re sui generis, che si scusava con il proprio maggiordomo quando gli chiedeva di lustrargli le scarpe e che imponeva in casa un regime spartano, volto al risparmio. Schivo, poco propenso ad apparire in occasioni mondane, appassionato di fotografia e dei progressi tecnologici in genere, attento osservatore in guerra ma sempre rispettoso delle decisioni dei suoi ufficiali, non mancava mai di portare un regalo, semplice come un mazzo di fiori, alla sua amata Elena.
Fu bersagliato dalla satira e dai detrattori (primo fra tutti Mussolini) per la sua bassa statura: “sciaboletta”, per via della sua spada che sembra fosse stata accorciata in modo che non strisciasse per terra, fu l’epiteto che più affondava il colpo.
Come già per il pezzo su Garibaldi, ho approfittato dell’opportunità che offre Internet di poter sentire molte campane e mi sono trovato nel solito groviglio di opinioni, critiche ed enfatizzazioni dal quale è complicato, ma divertente e stimolante, uscire con un’idea chiara e precisa.
Ovviamente i monarchici tendono a sottolineare gli indubbi meriti di Vittorio Emanuele III, come quello di aver dato vita nel 1905, assecondando l’idea di un americano, all’Istituto Internazionale di Agricoltura, dalle cui ceneri dopo la seconda guerra mondiale sorse la FAO; si sottolinea come egli non esitò a mettere a disposizione dell’ente appena costituitosi una grossa somma in denaro ed una palazzina in Roma che ne ospitò la sede centrale.
Il “re fotografo” contribuì inoltre alla fondazione della prima “Clinica di medicina del lavoro” (1910) e l'”Istituto nazionale Vittorio Emanuele III per lo studio e la cura del cancro”, che fu uno dei primi nel mondo intero.
Nel 1907, Vittorio Emanuele III fondò la “Società italiana per il progresso delle scienze”, nel 1917 istituì il “sussidio alla disoccupazione involontaria” e fondò l’Opera nazionale Combattenti, per la distribuzione agli ex militari delle terre di proprietà della Corona e di quelle bonificate.
Nel 1919 Vittorio Emanuele III equiparò i cittadini d’oltremare a quelli residenti in patria; nel 1921 istituì in Cirenaica il primo parlamento liberamente eletto nella storia del continente africano. Sempre secondo i monarchici, in 46 anni di regno, il suo appannaggio non aumentò di una lira, anzi, diminuì di quattro milioni, perché, all’indomani della prima guerra mondiale, fu lo stesso Re a chiederne la riduzione, per dare un esempio di rigore al Paese; e lo fece con una lettera inviata all’allora presidente del Consiglio Francesco Saverio Nitti e lungamente applaudita dalla Camera.
A lui inoltre si attribuiscono le seguenti iniziative: le leggi sulla tutela giuridica degli emigranti (1901), per la tutela del lavoro delle donne e dei minori (1902), contro la malaria e per la chinizzazione (1902), per l’istituzione dell’Ufficio del lavoro (1902), per la realizzazione delle case popolari (1903), il testo unico sugli infortuni sul lavoro (1904), sull’obbligo del riposo settimanale (1907), sull’istituzione della Cassa nazionale delle assicurazioni sociali (1907), sulla mutualità scolastica e sulla istituzione della Cassa nazionale per la maternità (1910). Non si dimentichi inoltre che nel novembre 1917 il re, difendendo a spada tratta la dignità dei suoi soldati dopo la disfatta di Caporetto, riuscì a convincere gli alleati anglo-francesi della bontà del progetto italiano volto a contenere l’avanzata austriaca sul Piave piuttosto che sull’Adige o sull’Oglio.
Nei testi monarchici si fa inoltre riferimento allo spirito sociale dei due sovrani, Vittorio Emanuele III e la Regina Elena (chiamata addirittura “Regina della Carità”). La loro generosità è ricordata soprattutto in occasione del terremoto di Messina, nel 1908, dove essi accorsero tra i primi sui luoghi disastrati e si curarono personalmente dei soccorsi, trasformando poi parte del Quirinale in ospedale.
Se però vogliamo dare un giudizio a 360 gradi, non ci si può fermare qui. Più di una volta Vittorio Emanuele III ebbe l’occasione di contrastare Mussolini ed il fascismo e più volte scrupoli costituzionali, timore di causare un guerra civile o forse mancanza di polso lo fermarono.
Dopo l’omicidio Matteotti del 1924, per esempio, Mussolini apparve sul punto di essere travolto dallo scandalo. Poteva una sua presa di posizione netta contro il fascismo decretarne la sconfitta? I pareri sono controversi; è certo che, dinnanzi all’aventiniano Giovanni Amendola, che gli leggeva l’atto d’accusa contro Mussolini, Vittorio Emanuele si coprì occhi ed orecchie dicendo: “Io sono cieco e sordo. I miei occhi ed i miei orecchi sono la Camera ed il Senato”.
I suoi detrattori gli rimproverano inoltre di non aver ostacolato l’avvicinamento dell’Italia alla Germania di Hitler e di aver accolto quest’ultimo nel 1938, nonostante la sua avversione per il nazismo, durante la visita in Italia. Allo stesso anno risale la promulgazione delle leggi razziali, che getta un’ombra sul suo regno; in seguito assistette agli eventi che anticiparono la seconda guerra mondiale (per esempio la tragicomica conquista dell’Albania, un po’ come il marito che rapisce la propria moglie) con una sorta di rassegnato fatalismo.
Ultima in ordine di tempo è la “fuga” di Pescara, all’alba del 9 settembre 1943, che consegnò agli ex-alleati tedeschi un paese allo sbando; una vicenda a dir poco imbarazzante in cui molti alti ufficiali dettero esempio di codardia.
Come concludere, dunque? L’idea, personalissima, che mi sono fatto è che Vittorio Emanuele III fu un re migliore dei suoi predecessori, soprattutto dal punto di vista prettamente umano: egli amò la sua Elena e non fu protagonista (dopo il matrimonio) di scandali con attricette di second’ordine o procaci cortigiane come accadde al padre ed al nonno. Ammirevoli inoltre, come detto, i suoi slanci di carità in campo sociale. Si trovò a regnare, purtroppo per lui, in un periodo buio della storia europea dove la luce della ragione sembrava aver abbandonato i più.
Non fu in grado di tirare fuori l’Italia dalla tragedia, ma è opinione comune che egli agì sempre nell’interesse del suo Paese.

EDIT: Riprendo in esame questo pezzo nel dicembre 2017, in occasione del rientro in Italia della salma di Vittorio Emanuele III che riposerà vicino alla sua Elena nel santuario di Vicoforte (CN). L’evento è stato oggetto di polemiche piuttosto accese, soprattutto da parte della comunità ebraica; non dimentichiamo infatti la firma delle leggi razziali del 1938, bieca imitazione di quelle varate dal Nazismo. Ho ascoltato il giudizio di alcuni storici invitati a commentare il fatto e la sentenza mi sembra univoca: i demeriti di Vittorio Emanuele III superano i meriti.

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Nel novembre 2020 ho ricevuto un interessante contributo (nonché una dura reprimenda…) a questo articolo. Riporto quanto mi ha scritto il Sign. Mario Salvatore Manca di Villahermosa, che di alcuni eventi può vantare addirittura un’esperienza diretta!

Va detto subito che VITTORIO EMANUELE III sin da subito non aveva alcuna voglia di “fare il Re”. Conscio del proprio “physique du rôle”, era piú portato per lo studio e per le materie in cui più che la versatilità letteraria si richiedeva un metodo sistematico. Ne fa fede il suo impegno nello studio della Storia attraverso le monete (da chi avesse ereditato questa propensione allo studio, lo si può dedurre dagli ascendenti materni di sua Madre, la Regina Margherita: pur essendo figlia del Duca di Genova, fratello di Vittorio Emanuele II, il Re Galantuomo, da parte di madre discendeva dalla Dinastia di Sassonia. Il nonno di lei, Giovanni I Nepomuceno, appassionato italianista, aveva tradotto – da solo, senza aiuti di dizionari né di commissioni varie – tutta la Divina Commedia, rispettando rigorosamente tutti i criteri danteschi: le tre cantiche, ciascuna di trentatré canti oltre al canto dell’Antinferno per la prima cantica, tutte in terzine di endecasillabi nella stessa metratura del testo originale (ABA BAB ecc.), con la stessa parola “Sterne” (stelle, ugualmente di sei lettere) al termine dell’Inferno, del Purgatorio e del Paradiso.
Aveva sposato – per amore più che per combinazioni politiche – la Principessa Yela del Montenegro (Elena), con la quale condivideva tutti i valori che loro consideravano i più importanti per una vita non da Sovrani, ma da marito e moglie. Molto probabilmente aveva parlato anche con lei del suo progetto: per questo, in quella calda estate del 1900, si era recato in vacanza sull’Egeo a bordo del panfilo “Yela” per preparare una petizione da presentare al suo ritorno a suo padre Umberto I per passare la successione al suo più aitante cugino Emanuele Filiberto Duca d’Aosta. Ma a guastargli le uova nel paniere furono quelle tre rivoltellate dell’anarchico Gaetano Bresci. Fu rintracciato in pochi minuti e fu avvisato: “Maestà, è successa una disgrazia”. Non fu chiamato “Altezza Reale”, fu chiamato “Maestà”. Ora non poteva dire in quel frangente “Mi ritiro”. Avrebbe fatto la figura del vile. E lui vile non era e non voleva esserlo.
Perciò, obtorto collo, sul Trono insanguinato di Monza, fece il giuramento di fedeltà allo Statuto, al quale nel bene e nel male, si mantenne scrupolosamente ligio fino al 9 maggio 1946, quando firmò l’atto di abdicazione in favore del Principe di Piemonte Umberto II, che da quasi due anni esercitava i poteri di Capo dello Stato col titolo di Luogotenente Generale del Regno.
Rispettò lo Statuto in tutta l’evoluzione sociale – che ha giustamente elencata e che non soltanto Gli è attribuita, ma di cui si fece promotore in tutto e per tutto.
Rispettò lo Statuto quando per gli spari di Sarajevo che provocarono la scintilla della Prima Guerra Mondiale l’Italia proclamò la sua iniziale non-belligeranza, in quanto Austria e Germania, con la loro dichiarazione di guerra alla Serbia, senza avvisare preventivamente l’Italia, palesemente violarono una delle clausole più importanti della Triplice Alleanza e perciò stesso la giustificavano per il suo “voltafaccia”, uscendo dalla Triplice e aderendo al Patto di Londra. E il Piave mormorò.
Rispettò lo Statuto quando, l’8 novembre 1917, al Convegno di Peschiera, davanti ai nostri politici e militari che nel loro pessimo francese e nel loro ancor peggiore inglese, non trovavano di meglio che balbettare scuse davanti ai plenipotenziari anglo-franco-americani, in un perfetto francese da Sorbona e in un ancor più perfetto “King’s English”, espose punto per punto tutti i punti di vista italiani per porre la linea di difesa sul Piave. E finirono per dare ragione a Sua Maestà.
Rispettò lo Statuto nel 1922, quando, dopo le dimissioni dell’ultimo primo ministro liberale Facta e questi gli presentò lo stato d’assedio da firmare, gli rispose che ora “l’ultima parola spettava a Lui”. Aveva rifiutato di prendere la responsabilità, doveva star zitto. Altrimenti avrebbe potuto presentare prima delle dimissioni lo stato d’assedio contro le camicie nere.
Rispettò lo Statuto dopo il caso Matteotti: la mossa degli antifascisti sull’Aventino era una sterile mossa di protesta, che però non era contemplata nello Statuto. Il signor Amendola poteva protestare finché voleva, ma se avesse protestato a Montecitorio, forse il Re avrebbe potuto agire. Non lo fece perché lo Statuto, a cui voleva mantenersi rigidamente ligio, non Glielo consentiva. Ugualmente fu per tutto il ventennio fascista.
A questo proposito, posso narrarLe un episodio di cui – nella mia infanzia e ripetutamente rivissuto e memorizzato – fui testimone.
Mio padre, agente di commercio, dopo la guerra d’Abissinia ricevette da parecchie Case italiane (Pirelli, Carlo Erba, Montecatini, ecc.) l’incarico di rappresentanza per la zona dell’Hararino. Quella zona era stata scelta sia per ragioni climatiche (sull’altipiano etiopico, a duemila metri sul livello del mare), sia per ragioni logistiche (a metà strada della ferrovia Gibuti – Addis Abeba o Addís Ababà, come dicevano gli indigeni). Dato il regime imperante, che in materia finanziaria si può dire che fosse l’antesignano di quel fenomeno che negli anni ’90 in Italia va sotto il nome di Tangentopoli, i vari funzionari coloniali facevano molte pressioni su mio padre perché pagasse più del dovuto. Un ricatto bell’e buono a cui mio padre sempre si oppose. Dato il nostro nome (siamo la famiglia più antica della Sardegna e durante la bufera napoleonica i Savoia furono di casa da noi), eravamo molto legati al Viceré (che io, bambino di allora quattro anni, avevo subito chiamato “il mio Eroe”). Sono nato nel maggio 1935 e nel 1940 avevo appena compiuto cinque anni e mancavano quindi pochi giorni alla nostra entrata in guerra. Una sera aspettavamo il Viceré. Si stava facendo tardi ed io mi rifiutavo di andare a letto, se prima non avessi visto “il mio Eroe”. Finalmente venne con gli occhi fuori dalle orbite. Ricordo ancora le sue testuali parole, che mi son sempre fatte ripetere dai miei genitori:
«Torno ora in volo da Roma. Ho cercato di andare dal “Capo” per dissuaderlo dal fare quella fesseria. Non ha voluto ricevermi. Sono stato dallo “Zio Vittorio”, che invece mi ha ascoltato attentamente e poi mi ha detto: “Tu ed io siamo sulla stessa lunghezza d’onda. Perciò la penso esattamente come te. Ma sai bene che ho le mani legate e che non posso far nulla senza che ci siano almeno dei voti contrari”. Perciò siamo nelle mani di Qualcun Altro Lassù».
Inutile dire che il “Capo” era Mussolini e lo “Zio Vittorio” era il Re.
Quanto alle leggi razziali, osserviamo bene:
1. Prima di firmarle, se le tenne nel cassetto sei mesi, dopo di che, dovette firmare per evitare il peggio.
2. Se non le avesse firmate, che sarebbe avvenuto? Mussolini senz’altro lo avrebbe destituito (e questo era il meno, che comunque non spaventava il Re). Ma chi si sarebbe insediato al suo posto? Forse Mussolini o peggio ancora il “padrone del vapore”, l’imbianchino di Monaco, il Führer e Reichskanzler Adolf Hitler. E allora si salvi chi può.
Infine ne fa testo l’ultima lettera di Galeazzo Ciano scritta al Re – e recapitataGli attraverso vie segrete – prima che fosse “giustiziato” al processo-farsa di Verona, in cui si legge testualmente:
“Io posso testimoniare davanti a Dio e davanti agli uomini l’eroica battaglia sostenuta dalla Maestà Vostra per evitare quell’errore e quel crimine che fu la nostra guerra a fianco dei tedeschi”.
Con tutto questo, La invito a far riflettere gli altri a cui ha sottoposto la Sua analisi, che definisco cinica e superficiale.
Mario Salvatore Manca di Villahermosa

Post Scriptum Desidero aggiungere che semmai il problema sarebbe lo Statuto Albertino, che merita di essere riveduto e corretto e rifatto da capo a piedi conformemente alle esigenze attuali. Esso era stato elaborato in diciassette anni (dal 1831, anno dell’ascesa al Trono di Carlo Alberto, fino al 1848, anno in cui fu promulgato e che dette l’avvio al grande movimento del Risorgimento), in un’epoca di gentiluomini e persone per bene, che nella loro santa ingenuità erano convinti che fossero tutti altrettanti gentiluomini e persone per bene, men che meno si potevano immaginare che in capo a poco meno di un secolo dopo sarebbe venuto Benito Mussolini a gettare ogni cosa a carte e quarantotto. Col beneplacito del gonzo popolo italiano dalle folle oceaniche osannanti a quell’uomo che perfino un Vicario di Cristo definì “Uomo della Provvidenza” (sic!), per poi condannarlo subito dopo per l’alleanza col nazismo. Il che la dice lunga sulla diplomazia vaticana, nata in quella notte nella quale il primo Papa, poco prima che il gallo cantasse, disse per tre volte “Non conosco quell’Uomo” (Mtt. 26, 69-75; Mc. 14, 66-72; Lc.22, 54.62; Gv. 18, 25.27).

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5 Risposte

  1. Domenico Vaccaro ha detto:

    Ho trovato il suo pezzo molto interessante. Non conosco abbastanza la storia della fuga dall’Italia. Mi è piaciuto conoscere i fatti positivi. E mi sento anche più d’accordo con suo parere perché le versioni sono spesso manipolate da certi per interessi di altri. Un po come hanno fatto con Pio XII. Complimenti per il suo pezzo!

  2. Giovanni ha detto:

    Si legga meglio la storia. Il paese allo sbando come dice Lei era un paese disastrato dalla massoneria al vertice della nazione da anni. E NON DIMENTICHIAMO la vigliaccheria del re e di Badoglio con la loro ignominosa fuga con tesoretti e soldi, lasciando il popolo nelle tragedie e nella sofferenza. Scandaloso far rientrare la salma di un tale personaggio. RISPOSTA: Caro Giovanni, ho letto la storia, altrimenti non mi sarei azzardato a scrivere un pezzo del genere, essendo un semplice appassionato. Mi sembra infatti di aver riportato con una certa imparzialità sia la versione monarchica, sia quella della parte avversa. Nessuno dimentica la vigliaccheria della fuga di Pescara, con tanti alti ufficiali imploranti di potersi imbarcare per Brindisi. Una vergogna assoluta. Ma questo non toglie a Vittorio Emanuele III i meriti elencati, che forse non bastano a porlo dalla parte dei giusti nella Storia.

  3. Max ha detto:

    Questa mi sembra una sintesi dai toni imparziali, dove vengono elencati meriti e demeriti (se non addirittura colpe) del terzo Re d´Italia. Concordo sul fatto che il Re si trovò a regnare durante la prima parte di un secolo in cui comunismo e nazi-fascismo ribaltarono molte nazioni europee. V.E. III fece ben poco per contrastare il fascismo e lo fece tardi. Una precisazione per alcuni: il Re non fuggì dall´Italia, lasciò Roma per trasferirsi a Brindisi e assicurare così una continuità dello Stato.

  4. Nicolò Rienzi ha detto:

    Viva la repubblica!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!

  5. Mario Salvatore Manca di Villahermosa ha detto:

    Cinico e superficiale

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